Negli ultimi 15 anni la vendita di automi nel mondo è aumentata del 500%, e secondo le previsioni di “Viva la Robolution” -ricerca pubblicata da Trademachines, piattaforma B2B per l’e-commerce di macchinari industriali e agricoli usati- entro il 2099 il 70% dei lavoratori sarà automatizzato.

Nonostante ciò, stando all’opinione dei ricercatori, tale invasione robotica non è -e non potrà essere-  motivo di disoccupazione, ma al contrario aumenterà sia la produttività delle imprese che le opportunità d’impiego. A cagione dimostrativa viene riportata la situazione in Germania, terzo mercato al mondo per la robotica, dove il tasso di disoccupazione dal 2009 al 2015 ha subito un calo del 37%. Altro dato a favore di questa tesi, secondo le indagini di Trademachines, è il milione e mezzo di posti di lavoro creati, grazie ai robot, nel campo dell’automotive americano.

Anche in Italia le opinioni degli esperti non si discostano di molto: l’idea generale è che l’imminente problema da affrontare non graviti attorno al rischio  di una carenza occupazionale dovuta all’introduzione sempre più massiccia dei robot in contesto lavorativo, ma semmai alla mancata consapevolezza, da parte di molte aziende italiane, che la digitalizzazione è ormai una necessità e di conseguenza sia urgente l’esigenza d’investire sulle giovani leve, fornendo loro l’istruzione indispensabile a padroneggiare le competenze per occupare quella moltitudine d’emergenti professioni indissolubilmente legate a tecnologia e automatizzazione. Il progresso spinge in questa direzione, e il presente lo dimostra: come è già accaduto 200 anni fa con la rivoluzione industriale -dove circa il 99% dei lavoratori agricoli fu meccanizzato- oggi, con un’automatizzazione pari all’80% nel processo produttivo di una macchina, il passato sembra riproporsi in vesti “futuristiche”.

Attualmente, a livello mondiale, il settore “automotive” assorbe il 43% dei robot in circolazione, di cui il 70% è distribuito da Cina, Giappone, Corea del Sud, Usa e Germania, ma nei prossimi anni l’automatizzazione coinvolgerà la stragrande maggioranza dei settori produttivi e paesi industrializzati abbracciando, oltre alle grandi imprese, anche le medie e piccole aziende. Si palesa dunque l’occorrenza di continuare ad approfondire progettazione e fabbricazione -già in atto- di macchine capaci non solo di svolgere “ciecamente e ripetitivamente” un compito assegnato, ma di “interagire” con l’elemento umano affiancandolo e sostenendolo nello svolgimento delle mansioni quotidiane. Robot “intelligenti”, in grado d’apprendere e modificarsi secondo necessità e dotati di sensori che gli consentano, grazie alla tecnologia watch and learn, di percepire lo spazio circostante e coordinare i movimenti consentendo agli operatori che li affiancano d’operare in totale sicurezza. Al fine di sintetizzare caratteristiche e funzioni di siffatti robot, è stato coniato il termine Cobot: robot certificati per lavorare a stretto contatto con l’uomo. A questo proposito è nato in Europa, all’inizio del corrente anno, il progetto ANDY -Advancing Anticipatory Behaviors in Dyadic Human-Robot Collaboration- coordinato dal ricercatore IIT (Istituto Italiano di Tecnologia che ha sede a Genova) Francesco Nori e cofinanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma Ricerca e Innovazione Horizon 2020. Il progetto ha una durata di quattro anni, coinvolge istituti di ricerca e aziende internazionali in Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Danimarca e Slovenia, (es. ABB, Inail, FCA, Audi, Renault, Airbus) ed è finalizzato a sviluppare le qualità adattive, collaborative, percettive e interattive dei robot in ambito sia industriale che domestico, interpretando le esigenze fisiche umane e riducendo i rischi di infortunio. Tali abilità saranno trasferite in tre differenti tipologie di robot, realizzate in altrettanti step. La prima tipologia, la più “semplice” da realizzare, è quella del cobot, il cui fulcro di funzionamento si baserà su una tuta sensorizzata indossata dalla persona e connessa a un robot esterno che, attraverso le informazioni trasmessegli, interpreterà le situazioni di difficoltà del lavoratore intervenendo con azioni semplici per aiutarlo nelle mansioni e preservarlo dagli infortuni. Il secondo step andrà a configurarsi in un esoscheletro integrato da sensori estremamente compatti, creato allo scopo d’essere direttamente indossato dall’uomo. Mediante questo strumento l’individuo -una sorta di cyborg- sarà assecondato, potenziato ed eventualmente corretto nei movimenti. L’esoscheletro rafforzerà il corpo umano, individuandone e consigliandone le posture migliori in base alle attività svolte e preservandolo da incidenti dovuti a situazioni d’eccessivo sforzo scheletrico-muscolare. Grazie alle sue caratteristiche, inoltre, potrà essere utilizzato in campo medico-riabilitativo. L’ultimo e terzo step, il più complesso e straordinario dell’intero prospetto, volgerà allo sviluppo di robot cognitivi come iCub (costruito anch’esso dall’ IIT di Genova. Alto 104 cm e pesante 22 kg), incrementandone le capacità di percezione e anticipazione del comportamento umano. Obiettivo finale: “dar vita” a un androide in grado d’adattarsi rapidamente al più gran numero di contesti quotidiani possibili, reagendo con prontezza e in modo adeguato a stimoli umani nonché ambientali. Se il progetto dovesse andare in porto, oltre a rappresentare un enorme passo avanti nel campo dell’AI, in un futuro (forse) prossimo i robot i potranno impiegarsi in vece d’assistenti (per anziani, disabili e bambini), aiutanti domestici, “dame” di compagnia e chissà cos’altro ancora…

A giudicare da queste premesse e dalla grandissima quantità d’energie ultimamente orientate -in Europa come nel resto del mondo- verso gli orizzonti dell’automazione e dell’AI, sembra che i tempi siano quasi maturi affinché le più sfrenate fanta-scientificherie cinematografiche dal retrogusto anni 70/80 divengano nel bene (C-3P0; Guerre stellari) o nel male (T-800; Terminator) una tangibile realtà…

Marcello Argenti