Stiamo attraversando un’epoca di frenetica trasformazione, dove i ritmi della vita sono cadenzati da una tecnologia “viva” e in continua evoluzione. I dispositivi connessi alla rete sono già miliardi e, come più volte abbiamo avuto modo di ribadire, aumentano ogni anno in maniera esponenziale. Città, fabbriche, abitazioni, oggetti e mestieri: tutto punta in direzione della tecnologia, dell’interconnessione e dell’automatizzazione. Tramite hardware e software gestiamo manifatture, magazzini, trasporti di merci, prenotiamo viaggi, monitoriamo la nostra attività fisica e il nostro stato di salute. Attraverso i grandi sistemi informatici controlliamo le ampie reti infrastrutturali che trasportano energia elettrica, acqua e gas, coordiniamo le infrastrutture di trasporto (stradali, ferroviarie, marittime ed aeree), quelle sanitarie, di pubblica sicurezza e amministrazione…Tutto ciò si traduce nella produzione e gestione di in un’incommensurabile mole di dati, resa possibile grazie a quell’insieme di metodi e tecnologie che realizzano i sistemi di trasmissione, ricezione ed elaborazione di informazioni: in una parola, grazie all’ICT (Information and Communications Technology). Ecco quindi che diventano ogni giorno più indispensabili i ruoli, le conoscenze e le capacità -tecniche, manageriali, logistiche e relazionali- delle persone che, a vari livelli, lavorano in questo ramo.
La rivoluzione in atto nel mondo è appena iniziata, e nonostante le ipotesi siano variegate, nessuno sa con certezza dove ci porterà. Intelligenza artificiale, analisi di big data, industria 4.0 e internet delle cose sono solo in fase di slancio: ben presto (si parla di pochi anni) cambieranno ulteriormente le nostre vite, l’economia mondiale ne sarà dipendente e, come accade in ogni rivoluzione industriale, chi non si troverà pronto a cavalcare l’onda sarà perduto.
Malgrado tutto ciò sia sempre più evidente, moltissime imprese del nostro paese sembrano ancora considerare il comparto ICT un costo accessorio anziché un indispensabile investimento, e il fatturato dedicatogli è tra i più bassi in Europa. Attraverso una ricerca condotta dagli “Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano”, è emerso che il 95% delle aziende italiane ritiene l’innovazione digitale un fattore rilevante, ma al contempo solo il 25% d’esse investe oltre l’1% del fatturato in tecnologie e servizi ICT. Tale parsimonia non è però ben indirizzata, e piuttosto che un risparmio rappresenta un costo. Secondo uno studio intrapreso da Censuswide per conto di Sharp sull’uso della tecnologia in ufficio -che ha preso in analisi un campione di 6045 impiegati in nove Paesi europei tra cui l’Italia- le inefficienze e inadeguatezze tecnologiche costano 19 giorni di lavoro l’anno, con una caduta della produttività e della soddisfazione di lavoratori e utenti e una spesa importante per aziende pubbliche e private. I risultati quantificano sia il ritardo culturale di molti impiegati che stentano a utilizzare le nuove tecnologie, sia il ritardo tecnologico e organizzativo di numerose ditte ostinate a impiegare dispositivi obsoleti e procedure antiquate.
Per riportare un po’ di dati, è stata calcolata una perdita di tempo media giornaliera di 22 minuti cercando files sul server, 6 minuti in attesa che la stampante si riscaldi, 9 minuti aspettando che i documenti vadano in stampa, 8 minuti attendendo l’avvio della strumentazione audio-video 13 minuti per aiutare i vicini di scrivania a usare “semplici” programmi come Power Point e Word. Nonostante ciò, quasi tutti i partecipanti concordano sul fatto che la tecnologia faciliti la condivisione di idee e informazioni (78%) e la collaborazione con i colleghi (77%). Per quanto riguarda l’Italia nello specifico, il 70% degli intervistati ha affermato che se la tecnologia fosse più aggiornata, il lavoro sarebbe svolto in maniera migliore e più collaborativa. Nel 53% dei casi, inoltre, i dipendenti hanno risposto d’adoperare al lavoro dispositivi privati, più facili da utilizzare rispetto a quelli obsoleti forniti in ufficio. Il noto sociologo Domenico De Masi, docente presso l’università La Sapienza di Roma, ha commentato la ricerca affermando che il più grande problema delle aziende italiane è la situazione di stallo in cui si trovano quelle ancora in mano agli “analogici”, intendendo con questo termine non solo chi ha una propensione o meno all’uso delle tecnologie, ma indicando un modello di vita caratterizzato dalla generazione che conosce l’inglese, viaggia di più, non fa troppa distinzione tra notte e giorno o feriali e festivi. Il vero dramma italiano, critica il sociologo, è la struttura piramidale nostrana, che presenta al suo vertice gli “analogici” detentori del potere ma non delle competenze, e alla base i “digitali” forniti di competenze ma non di potere.
La sola certezza, concludiamo noi, è che presente e futuro si stanno muovendo in unica direzione, cioè quella di una sempre più pregnante tecnologizzazione ed interconnessione. E questo sta accadendo in tutto il mondo. Parecchie aziende sono già al passo, altre a breve si adatteranno e nuove aziende stanno nascendo sull’onda del cambiamento… pronte a soppiantare gli ostinati Neanderthal che nel giro di pochi anni, molto probabilmente, si vedranno costretti a chiudere i battenti della loro caverna.
Marcello Argenti